Partendo dai contributi di Folena alla storia degli studi linguistici e filologici tra Otto e Novecento, molti dei quali raccolti nel volume Filologia e umanità (ma passi su protagonisti di quella storia nonché su «autori trascurati o dimenticati si trovano – come ha notato Renzi 1997 – quasi in ogni suo saggio»), la comunicazione intende mettere a fuoco il rapporto con i maestri fiorentini: Pasquali, Migliorini, Devoto e quel Parodi di cui non ebbe «la fortuna di essere stato direttamente scolaro» ma al quale si “ricongiunse” attraverso l’allievo diretto Schiaffini (cfr. Folena 1962: 395). L’obiettivo è evidenziare quanto Folena, avanzando sulla loro scia, abbia saputo trasmettere alle generazioni successive di studiosi: metodi, idee, temi d’indagine e la stessa centralità attribuita ai dibattiti seminariali nel processo formativo indirizzato alla ricerca e all’esercizio della libertà scientifica di discenti e professori. In fondo, il Circolo Filologico Linguistico Padovano e gl’incontri interuniversitari di Bressanone, di cui si celebrerà la prossima estate il quarantennale, si possono considerare frutti di quel modo pasqualiano di concepire l’università di domani, con il correlato rifiuto di paratie disciplinari e di astratte teorizzazioni; atteggiamento che fu condivso anche da altri “maestri e amici” di Folena, in nome del dialogo e della collaborazione tra specialisti, indispensabili per analizzare fatti e tentare di risolvere problemi concreti, vera sostanza dell’attività scientifica ed in particolare del binomio linguistica - filologia, tanto caro sia a Pasquali sia a Folena. Un altro esempio delle linee di continuità che mi propongo di mettere in rilievo è offerto dalla nozione miglioriniana di «linguistica a tre dimensioni», intesa non solo come attenzione agli aspetti sociali e culturali nelle dinamiche del mutamento linguistico ma più ancora come interesse alla dimensione del contatto tra lingue e varietà diverse, ai processi di sovrapposizione, di contaminazione, di mescolanza ed ibridazione, che caratterizzano anche la vicenda della progressiva affermazione della lingua comune (cfr. Covino 2011). La concezione della storia della lingua quale processo di organizzazione o disintegrazione di sistemi coesistenti, nel sostanziale plurilinguismo inerente a qualsiasi comunità e a qualunque parlante, è stata indicata da Varvaro (1984: 47) come carattere specifico e distintivo di questa “controversa” categoria. Qui basta solo accennare al ruolo che le appassionanti ricerche di Folena (sulle crisi linguistiche del Quattrocento e del Settecento, sul poliglottismo cinquecentesco, opposto al dominante classicismo bembiano, sulla lingua franca e sulle lingue coloniali della Romània d’oltremare, ecc.) hanno svolto, contribuendo a consolidare tale profilo disciplinare e a trasmetterlo in eredità ai giovani; compito questo che Folena si prefisse con grande consapevolezza e determinazione: «era come se – ha scritto Alfredo Stussi (1999: 256-257) – al rapporto sincronico con colleghi viventi si accompagnasse quello diacronico, non meno reale e determinante, con colleghi scomparsi; era come se lui, Folena, si considerasse il trait d’union in un’interrotta sequenza tra antichi maestri e giovani allievi». Certo, a giudizio di Folena, che pure condivise la concezione antidealistica della lingua come istituto collettivo propugnata da Devoto e da Migliorini, non è possibile «fare storia della lingua senza tenere conto anche della stilistica» (Folena 1977: 124); in questo orizzonte programmatico, profondamente influenzato dall’ammirazione per Spitzer, si collocano, tra l’altro, molti saggi di ricostruzione storiografica dedicati da Folena a Carducci, a Lisio, a Canello, a Parodi e allo stesso Devoto (con la sua “stilistica delle scelte della lingua”). Su tale versante, la fecondità del magistero foleniano è testimoniata dalla prestigiosa scuola che è cresciuta intorno a lui coltivando, in ambito sia italiano sia romanzo, interessi, oltre che filologici e storico-linguistici, anche stilistici, metrici e letterari. Tuttavia, se è vero, come ha osservato Marazzini (2007: 162), che «le esitazioni di Migliorini di fronte al linguaggio degli scrittori sono oggi superate, e si può riconoscere che ha finito per prevalere un’impostazione più vicina a quella di Devoto», è indubbio che le indagini linguistiche sugli scrittori, cui si sono aggiunte quelle sugli scriventi non professionali o non abituali (specie attraverso documentazione di tipo epistolare), tengono sempre più conto dello sfondo comune della norma coeva, perseguendo la finalità che stava più a cuore a Migliorini; basti citare la premessa alla Storia della lingua italiana: «l’interesse per la storia della lingua comincia quando si commisura il linguaggio individuale d’uno scrittore con l’uso dei suoi contemporanei», affermazione a cui si accompagna il rinvio elogiativo alle «luminose pagine del De Lollis sul lessico dei poeti dell’Ottocento» e alla «solida monografia del Folena sull’Arcadia del Sannazzaro» (Migliorini 1960: VIII). In pratica si è allontanato il rischio – segnalato da Mengaldo (1966: 170) proprio in riferimento al Profilo devotiano – di gravare troppo la lingua letteraria di «valori sintomatici di documentazione dell’uso». Il rinnovato studio della sintassi, specie in rapporto con l’elaborazione retorico-stilistica, terreno d’incontro privilegiato fra linguistica e stilistica letteraria, e l’ingresso nelle procedure d’analisi della prospettiva testuale e pragmatica hanno aperto poi la strada al superamento, o almeno alla messa in discussione, della nozione tradizionale di immobilità dell’italiano (cfr. Serianni 2007: 9-11). L’accenno di Serianni, nel consuntivo appena citato, a un’area di ricerca particolarmente produttiva negli ultimi anni, quella dell’onomastica e più specificamente dell’antroponimia, mi permette di aggiungere un ulteriore esempio di quella trama di rapporti che collegano l’oggi a filoni e metodi d’indagine inaugurati da Migliorini e praticati anche da Folena, a partire proprio dalla considerazione del lessico (e della semantica storica) come «centro dell’indagine linguistica» (Folena 1952: 95), cioè di una storia linguistica che, collegandosi strettamente ad altri indirizzi della ricerca storica e superando la distinzione tra linguistica interna e linguistica esterna, si fa storia culturale, civile e sociale; si pensi al fulgido esempio offerto dai saggi di antroponimia fiorentina e veneziana poi raccolti in Folena 1990: 175-225. Né è un caso che Folena (1979) abbia dedicato il proprio contributo, nella silloge degli allievi in ricordo del maestro, al primo libro di Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, il primo di lui che Folena aveva letto, subendone tutto il «fascino particolare». Non si può negare che, richiamandosi alla prospettiva geografico-culturale illuminata da Dionisotti, Folena (1977: 128-129) abbia teso a sottolineare la sua distanza dalla visuale toscanocentrica di Migliorini (rivolta all’espansione unitaria dell’italiano) e la sua opposta propensione ad aggirarsi sempre «nelle periferie della lingua» (da quella meridionale del Sannazzaro o dell’ Istoria di Eneas, alla toscanità demotica del piovano Arlotto, all’ambiente veneto, esplorato nei diversi campi dell’esperienza linguistica di Goldoni, della Bibblia padovana, del veneziano coloniale, ecc.). Ma come non ricordare che il suo interesse per l’ibridismo linguistico degli scambi quattrocenteschi era nato proprio dalle ricerche per la tesi di laurea, suggerita e seguita da Migliorini, con il quale il giovane apprendista preparò pure le due antologie di testi non toscani del Trecento e del Quattrocento? E ancora: come non concordare col già citato Varvaro (1984: 48), quando afferma che ogni storia della lingua (non solo italiana) non può sottrarsi al presupposto teologico del punto d’arrivo? In fondo, neppure le due più importanti novità editoriali impostesi nel panorama dei nostri studi dopo la Storia di Migliorini, l’Italiano nelle regioni e la Storia della lingua italiana einaudiana, fondate entrambe sul caposaldo tematico e metodologico del secolare policentrismo linguistico e culturale italiano, si sono potute sottrarre a questa regola.

I maestri di Folena e la storia della lingua italiana oggi

COVINO S
2014-01-01

Abstract

Partendo dai contributi di Folena alla storia degli studi linguistici e filologici tra Otto e Novecento, molti dei quali raccolti nel volume Filologia e umanità (ma passi su protagonisti di quella storia nonché su «autori trascurati o dimenticati si trovano – come ha notato Renzi 1997 – quasi in ogni suo saggio»), la comunicazione intende mettere a fuoco il rapporto con i maestri fiorentini: Pasquali, Migliorini, Devoto e quel Parodi di cui non ebbe «la fortuna di essere stato direttamente scolaro» ma al quale si “ricongiunse” attraverso l’allievo diretto Schiaffini (cfr. Folena 1962: 395). L’obiettivo è evidenziare quanto Folena, avanzando sulla loro scia, abbia saputo trasmettere alle generazioni successive di studiosi: metodi, idee, temi d’indagine e la stessa centralità attribuita ai dibattiti seminariali nel processo formativo indirizzato alla ricerca e all’esercizio della libertà scientifica di discenti e professori. In fondo, il Circolo Filologico Linguistico Padovano e gl’incontri interuniversitari di Bressanone, di cui si celebrerà la prossima estate il quarantennale, si possono considerare frutti di quel modo pasqualiano di concepire l’università di domani, con il correlato rifiuto di paratie disciplinari e di astratte teorizzazioni; atteggiamento che fu condivso anche da altri “maestri e amici” di Folena, in nome del dialogo e della collaborazione tra specialisti, indispensabili per analizzare fatti e tentare di risolvere problemi concreti, vera sostanza dell’attività scientifica ed in particolare del binomio linguistica - filologia, tanto caro sia a Pasquali sia a Folena. Un altro esempio delle linee di continuità che mi propongo di mettere in rilievo è offerto dalla nozione miglioriniana di «linguistica a tre dimensioni», intesa non solo come attenzione agli aspetti sociali e culturali nelle dinamiche del mutamento linguistico ma più ancora come interesse alla dimensione del contatto tra lingue e varietà diverse, ai processi di sovrapposizione, di contaminazione, di mescolanza ed ibridazione, che caratterizzano anche la vicenda della progressiva affermazione della lingua comune (cfr. Covino 2011). La concezione della storia della lingua quale processo di organizzazione o disintegrazione di sistemi coesistenti, nel sostanziale plurilinguismo inerente a qualsiasi comunità e a qualunque parlante, è stata indicata da Varvaro (1984: 47) come carattere specifico e distintivo di questa “controversa” categoria. Qui basta solo accennare al ruolo che le appassionanti ricerche di Folena (sulle crisi linguistiche del Quattrocento e del Settecento, sul poliglottismo cinquecentesco, opposto al dominante classicismo bembiano, sulla lingua franca e sulle lingue coloniali della Romània d’oltremare, ecc.) hanno svolto, contribuendo a consolidare tale profilo disciplinare e a trasmetterlo in eredità ai giovani; compito questo che Folena si prefisse con grande consapevolezza e determinazione: «era come se – ha scritto Alfredo Stussi (1999: 256-257) – al rapporto sincronico con colleghi viventi si accompagnasse quello diacronico, non meno reale e determinante, con colleghi scomparsi; era come se lui, Folena, si considerasse il trait d’union in un’interrotta sequenza tra antichi maestri e giovani allievi». Certo, a giudizio di Folena, che pure condivise la concezione antidealistica della lingua come istituto collettivo propugnata da Devoto e da Migliorini, non è possibile «fare storia della lingua senza tenere conto anche della stilistica» (Folena 1977: 124); in questo orizzonte programmatico, profondamente influenzato dall’ammirazione per Spitzer, si collocano, tra l’altro, molti saggi di ricostruzione storiografica dedicati da Folena a Carducci, a Lisio, a Canello, a Parodi e allo stesso Devoto (con la sua “stilistica delle scelte della lingua”). Su tale versante, la fecondità del magistero foleniano è testimoniata dalla prestigiosa scuola che è cresciuta intorno a lui coltivando, in ambito sia italiano sia romanzo, interessi, oltre che filologici e storico-linguistici, anche stilistici, metrici e letterari. Tuttavia, se è vero, come ha osservato Marazzini (2007: 162), che «le esitazioni di Migliorini di fronte al linguaggio degli scrittori sono oggi superate, e si può riconoscere che ha finito per prevalere un’impostazione più vicina a quella di Devoto», è indubbio che le indagini linguistiche sugli scrittori, cui si sono aggiunte quelle sugli scriventi non professionali o non abituali (specie attraverso documentazione di tipo epistolare), tengono sempre più conto dello sfondo comune della norma coeva, perseguendo la finalità che stava più a cuore a Migliorini; basti citare la premessa alla Storia della lingua italiana: «l’interesse per la storia della lingua comincia quando si commisura il linguaggio individuale d’uno scrittore con l’uso dei suoi contemporanei», affermazione a cui si accompagna il rinvio elogiativo alle «luminose pagine del De Lollis sul lessico dei poeti dell’Ottocento» e alla «solida monografia del Folena sull’Arcadia del Sannazzaro» (Migliorini 1960: VIII). In pratica si è allontanato il rischio – segnalato da Mengaldo (1966: 170) proprio in riferimento al Profilo devotiano – di gravare troppo la lingua letteraria di «valori sintomatici di documentazione dell’uso». Il rinnovato studio della sintassi, specie in rapporto con l’elaborazione retorico-stilistica, terreno d’incontro privilegiato fra linguistica e stilistica letteraria, e l’ingresso nelle procedure d’analisi della prospettiva testuale e pragmatica hanno aperto poi la strada al superamento, o almeno alla messa in discussione, della nozione tradizionale di immobilità dell’italiano (cfr. Serianni 2007: 9-11). L’accenno di Serianni, nel consuntivo appena citato, a un’area di ricerca particolarmente produttiva negli ultimi anni, quella dell’onomastica e più specificamente dell’antroponimia, mi permette di aggiungere un ulteriore esempio di quella trama di rapporti che collegano l’oggi a filoni e metodi d’indagine inaugurati da Migliorini e praticati anche da Folena, a partire proprio dalla considerazione del lessico (e della semantica storica) come «centro dell’indagine linguistica» (Folena 1952: 95), cioè di una storia linguistica che, collegandosi strettamente ad altri indirizzi della ricerca storica e superando la distinzione tra linguistica interna e linguistica esterna, si fa storia culturale, civile e sociale; si pensi al fulgido esempio offerto dai saggi di antroponimia fiorentina e veneziana poi raccolti in Folena 1990: 175-225. Né è un caso che Folena (1979) abbia dedicato il proprio contributo, nella silloge degli allievi in ricordo del maestro, al primo libro di Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, il primo di lui che Folena aveva letto, subendone tutto il «fascino particolare». Non si può negare che, richiamandosi alla prospettiva geografico-culturale illuminata da Dionisotti, Folena (1977: 128-129) abbia teso a sottolineare la sua distanza dalla visuale toscanocentrica di Migliorini (rivolta all’espansione unitaria dell’italiano) e la sua opposta propensione ad aggirarsi sempre «nelle periferie della lingua» (da quella meridionale del Sannazzaro o dell’ Istoria di Eneas, alla toscanità demotica del piovano Arlotto, all’ambiente veneto, esplorato nei diversi campi dell’esperienza linguistica di Goldoni, della Bibblia padovana, del veneziano coloniale, ecc.). Ma come non ricordare che il suo interesse per l’ibridismo linguistico degli scambi quattrocenteschi era nato proprio dalle ricerche per la tesi di laurea, suggerita e seguita da Migliorini, con il quale il giovane apprendista preparò pure le due antologie di testi non toscani del Trecento e del Quattrocento? E ancora: come non concordare col già citato Varvaro (1984: 48), quando afferma che ogni storia della lingua (non solo italiana) non può sottrarsi al presupposto teologico del punto d’arrivo? In fondo, neppure le due più importanti novità editoriali impostesi nel panorama dei nostri studi dopo la Storia di Migliorini, l’Italiano nelle regioni e la Storia della lingua italiana einaudiana, fondate entrambe sul caposaldo tematico e metodologico del secolare policentrismo linguistico e culturale italiano, si sono potute sottrarre a questa regola.
2014
978-88-6058-047-4
Gianfranco Folena, Bruno Migliorini, Giorgio Pasquali, Giacomo Devoto, Ernesto Giacomo Parodi, Alfredo Schiaffini, storia degli studi linguistici e filologici italiani
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