Tradurre, tessere, essere

Il traduttore esilico vive allora tra asili, esili, isole, suoli, soli. In solitudine come un numero primo, ma poiché i primi saranno gli ultimi, avrà la scelta se plasmare nuovi linguaggi, nuove parole che creeranno nuovi mondi, o adattarsi a quelle passate, andate, ai mondi di un tempo, anch’essi plasmabili e memorabili: rimembrabili e smembrabili. Che il suo percorso sia rivolto meno al passato e più al futuro certo importa, ma importa ancor di più il fatto che non è mai presente. Il traduttore perennemente estraniato e straniero, è straniero, poiché il suo linguaggio del dopo-vita può inventarlo o reperirlo nel rimemorato, in un morire che una volta evocato, o nominato, rivivrà per trasformarci. Per crearci, per plasmarci e per forgiarci. In definitiva, per contraffarci all’infinito.